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  • Francesco Caracciolo ha ricevuto il Premio alla cultura nel 1985 e nel 1994, conferito dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri

  • Ha ottenuto finanziamenti per la ricerca scientifica dal Ministero della Pubblica Istruzione e contributi dal Consiglio Nazionale delle Ricerche

  • È stato Forschungsstipendiat dell'Alexander von Humboldt Stiftung

  • Un equivoco della democrazia parlamentare contagiata dalla globalizzazione

    di Francesco Caracciolo

     

    Negli Stati democratici il dibattito, la diversità di posizioni e di vedute, il contrasto anche radicale, il conflitto tra partiti e tra gruppi sono consuete e normali manifestazioni. Anche se non di rado vivaci e perfino caotiche, sono l’anima, la vita dei loro organi costituzionali e dell’intero sistema da molti ritenuto l’unico raccomandabile, il migliore dei sistemi e dei regimi esistenti nel mondo. Dal confronto, dalla diversità di proposte e di tesi spesso dogmatiche e sostenute talvolta con violenza, scaturiscono la soluzione di problemi, il superamento di situazioni difficili, la scelta della via da seguire. A contendere e ad azzuffarsi, non solo nelle assemblee, sono individui convinti di agire per contribuire a conseguire il bene e il meglio per il proprio paese e per il popolo che rappresentano. Questo, almeno, è lo scopo dichiarato della loro azione. Certo, non tutti coloro che dichiarano quello scopo agiscono per attuarlo. Molti ai propositi dichiarati fanno seguire i fatti. Altri contraddicono o annullano tacitamente le loro dichiarazioni, ammantate di nobili intenti, con azioni contrarie agli scopi dichiarati e vestiti anch’essi di nobiltà.

    Questa dialettica in parte perversa si svolge e si verifica in tutti gli organi rappresentativi di tutti gli Stati democratici del mondo. Ovunque una parte dei componenti, singoli o gruppi, agisce guidata dall’interesse particolare proprio o del partito. Perciò la sua azione confligge con l’interesse generale, dello Stato e del popolo, fino a soverchiarlo e a zittirlo. Eppure quei suoi componenti rappresentano formalmente il popolo e lo Stato e dichiarano di agire in loro nome come utili e fedeli esecutori. Di questa anomala dialettica, più o meno sana o malata, consiste il metodo di reggimento delle democrazie. Ovunque con il comportamento ligio di una parte si accompagna quello subdolo di un’altra parte. Ovunque il conseguimento dell’interesse generale è limitato e spesso ostacolato da quello di esigenze particolari e di partito. Questo avviene di solito negli Stati democratici.

    Nei periodi di crisi profonde e nei momenti di pericolo ovunque è sempre prevalso sin dal lontanissimo passato e prevale oggi il comportamento responsabile di coloro che sostengono l’interesse generale. In questo nostro tempo, gli Stati democratici, dal Giappone, all’Australia, agli Stati Uniti, al Canada, al Regno Unito, ad alcuni Paesi dell’Unione europea, hanno mostrato e mostrano di sapere privilegiare nei momenti critici e di pericolo l’interesse generale. Ovunque, in quei momenti, cittadini e loro rappresentanti sospendono, smorzano o riducono al minimo contrasti, conflitti e beghe, si uniscono, alzano gli scudi e affrontano compatti il pericolo, la minaccia, l’aggressione in difesa dello Stato e del comune interesse. In quei momenti, tutti, in alto e in basso, ritrovano l’unità di intenti e guardano al loro punto fermo di riferimento, alla patria e alla dignità collettiva da difendere. E questa esigenza di difesa prevale ovunque; e prevale nonostante l’influsso della globalizzazione che ha attenuato il valore e resa minima l’importanza dell’interesse generale e del singolo Stato e del suo popolo.

    Questa autodisciplina, che è spontanea e normale in tutti gli Stati democratici, è stata quasi sempre e continua ad essere assente in Italia, in un paese dal lontano glorioso passato di radicata e salda unità di intenti e di scopi. Da oltre quindici secoli, in Italia, cittadini e loro rappresentanti, nella quasi totalità, non ebbero mai e continuano a non avere un punto fermo di riferimento. In quei secoli, l’interesse generale del Paese, della nazione che non c’era, del popolo, fu e continua ad essere sconosciuto; o meglio fu ed è conosciuto come esistente solo nelle dichiarazioni di intenti, nei proponimenti mai eseguiti, ma non nei fatti e nelle azioni degli Italiani e dei loro rappresentanti. In qualche momento critico, come quello risorgimentale o quello che seguì alla seconda guerra mondiale, quel punto fermo lo sbandierarono pochi illustri italiani e lo indicarono poi nella Carta costituzionale. Alla quasi totalità degli Italiani quel punto fermo fu e restò sempre estraneo e nella Carta costituzionale fu e restò lettera morta. Si può dire che gli Italiani non si sentono attratti  da un punto a cui riferirsi, da un valore che li sovrasti, da un’entità concepita come un faro della loro identità, della loro tradizione, del loro essere parte di una comunità. In Italia le parole Stato, Patria, Nazione, Popolo, sono belle ma fumose parole, suoni da emettere nelle cerimonie commemorative. Non sono parole e suoni che raggiungono l’anima e il cuore, non scuotono l’essere, non accalorano il sentimento e non rafforzano l’affezione. Parole e suoni restano sospesi nell’aria e, al massimo, sollecitano il cervello. Neppure nei momenti critici, nei quali si profilano pericoli per la comunità, gli Italiani fanno coro, non ricorrono a quelle parole e a quei suoni per cementare la necessaria unità di intenti e di azioni. Nella quasi totalità, in alto e in basso, restano intenti a condurre con successo le loro lotte, i loro contrasti, le loro beghe mediante bizantinismi e distinguo. Se intorno tutto precipita, o minaccia di precipitare, studiano la situazione per cercare di trovare il modo migliore di ottenere vantaggi e utili per sé e per il proprio partito alleandosi, se capita, anche con il nemico della comunità e dello Stato. In questo loro slancio nell’inciucio, gli Italiani si beano, avvertono la piena estrinsecazione di se stessi e dei propri sentimenti. Molti di loro sentono che quel loro modo di fare è in riga con le proprie abitudini ancestrali e con il proprio modo di essere in privato e in pubblico. In massima parte, gli Italiani sentono così di trovarsi a proprio agio in un ambiente familiare, come il pesce nell’acqua del mare, in un mondo globalizzato in cui si può e si deve fare a meno di princìpi e di valori belli, sublimi e attraenti, ma dichiarati scomodi e dannosi. A loro avviso, quel bel mondo globalizzato è quel che ci vuole. In esso è facile scatenare gli egoismi nei contrasti e nei conflitti tra individui, tra gruppi e tra partiti senza temere remore e disapprovazione. E di solito si scatenano quegli egoismi con successo. All’ombra e in nome dell’universalismo, del globalismo e dei suoi piatti e scoloriti valori si possono e si devono snobbare, baipassare la difesa della propria comunità, dello Stato, della tradizione e della particolare identità; e si può e si deve reprimere perfino l’anelito all’effettivo compimento dell’unità dell’Europa.

    In questo prevalente clima si verifica l’inverosimile. Contrasti e conflitti che ovunque nei Paesi democratici sono più o meno consueti solo nei periodi normali, in Italia si protraggono e persistono immutati, anche se camuffati, nei periodi difficili di crisi e di pericolo, e anche in quelli in cui si intravede il baratro. Il 20 e il 21 luglio 2022, molti senatori, tutti concordi nel dichiarare di agire nell’interesse del Paese e del popolo, operarono nei fatti per far prevalere l’interesse di partito e, alcuni, quello proprio. E molti fecero questo al sordido scopo di arraffare voti in un’eventuale prossima votazione elettorale. Escogitarono scopi fittizi e, quanto meno, inopportuni e anacronistici in quei momenti critici per occultare le loro anguste mire e i loro interessi personali e di fazione. Continuarono a brigare. Sfiduciarono il governo che fino a quel momento, per quindici mesi, aveva salvato il Paese, difendendolo dal disastro economico e finanziario che incombeva e in cui sarebbe stato travolto. Quei senatori e i loro partiti attenuarono i loro contrasti e i loro litigi solo nei mesi precedenti in cui il governo stava lavorando per far evitare al Paese il disastro e la caduta nel baratro in cui era sospeso. Nel fare questo sacrificio limitando le loro assurde pretese, molti senatori non resistettero a lungo. Quando il governo tecnico di Mario Draghi allontanò alquanto, almeno temporaneamente, l’incombente pericolo di disastro, essi tornarono a scatenarsi. In quei due giorni, 20 e 21 luglio, diedero sfogo ai loro interessi particolari e di bottega e di fatto sfiduciarono il governo nel bel mezzo della sua azione, quando era ancora in mezzo al guado e non aveva completato l’opera di risanamento. Con i loro distinguo e i loro divieti, lo misero in condizione di non potere proseguire proprio quando non aveva ancora rimediato ai danni che tanti malaccorti e inetti politici avevano prodotti nei mesi, negli anni e nei decenni precedenti e che si erano aggiunti ai danni derivanti dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina. Quei senatori ripresero così a dare pieno sfogo alla loro indole litigiosa, conflittuale, bizantina, anche quando il pericolo non si era dileguato e il baratro era ancora in vista. Fecero i loro comodi anche in quel momento di crisi in cui, ovunque, prevale l’interesse generale su quello particolare. I senatori italiani non fecero quello che avviene nelle assemblee di tutti gli Stati democratici del mondo. In quel momento di profonda crisi, non fecero prevalere l’interesse del Paese e del popolo. E come al solito, in Italia, trionfarono beghe, intrallazzi, conflitti, il modo di sentire e di essere della maggioranza. E il Paese, in un clima di incertezza, di confusione, di reciproche denigrazioni e di tragicomici giochetti parlamentari, si avvia a esprimere un nuovo parlamento e un nuovo governo, ma non a eliminare le endemiche ed ancestrali tare, che hanno sempre inficiato lo svolgimento di ogni attività nella società civile e negli organi costituzionali.

    Francesco Caracciolo

     

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