L’idea dell’Italia e degli Italici l’hanno data gli antichi Romani con le loro conquiste. I popoli e le città da loro conquistati acquisirono lingua e costumi dei conquistatori. Quando alcuni di essi si ribellarono, come fecero Capua al tempo di Annibale e ancor prima gli Etruschi e i Celti, i ribelli furono riconquistati. In seguito, popoli e città, nonostante il diverso trattamento che avevano i loro abitanti da quello dei cittadini romani, chiesero con insistenza e ottennero nel tempo la cittadinanza romana per i loro abitanti. Dalle Alpi ai Nebrodi e alle Madonìe costoro parlarono latino, vissero le stesse vicende dei cittadini romani, godettero la stessa pace e subirono gli effetti dei loro stessi rovesci. I popoli italici conquistati furono a tal punto assimilati che si sentirono parte dell’insieme creato dai Romani. Avvertirono forse maggiore appartenenza a quell’insieme e alla città che l’aveva creato di quanta ne sentissero molti cittadini romani, in gran parte sparsi per le province o mescolati con il gran numero di stranieri e sommersi da loro, in gran parte liberti e schiavi. Con la caduta dell’impero romano e con l’imperversare delle invasioni barbariche quell’insieme si sfaldò. Si andò frazionando l’unità di quel che restava delle città e dei decadenti italici, che divennero servi degli invasori. Non ebbero più costoro un punto fermo di riferimento nella città di Roma. Ma essi conservarono certo il senso dell’antico attaccamento alla città madre, dell’appartenenza all’insieme smembrato. Nella non felice condizione essi si tramandarono quanto meno il ricordo di quella loro appartenenza a un popolo unito per secoli da una città gloriosa e ora diviso e servo di pochi conquistatori barbari.
Non possono certo svanire, disperdersi nel nulla i resti di una tradizione, le eredità e gli echi di un passato travolgente. E non vi è dubbio che il senso di appartenenza alle sorti di una città e di una civiltà un tempo gloriose i molti servi italici lo abbiano conservato sempre quanto meno nel loro ricordo. Lo tramandarono per secoli e lo tramandarono alle future generazioni. Iniettarono il valore di quel mondo perduto nella mente e nell’animo dei loro conquistatori barbari.
Quel senso covato sotto le ceneri e ben conservato nutrì se stesso e andò crescendo. Cominciò ad emergere nella società che era intanto cresciuta e si era trasformata. «...l’antico valor negli italici cor non è ancor morto.» diceva Petrarca agli inizi del quattordicesimo secolo. Nel tronco della società asservita il germoglio si era andato sviluppando e aveva prodotto nuovi impulsi e nuove esigenze. Si andarono ora formando nuclei di curiosi del loro lontano passato che utilizzarono gli scritti superstiti conservati e tramandati da solerti monaci nei conventi. Con questo loro apporto i nuclei di investigatori che si erano andati formando poterono spingersi oltre. Andarono apprendendo e approfondendo quanto emergeva da scritti conservati per secoli. Cominciarono a conoscere e a documentare quel vecchio mondo scomparso di cui i molti servi avevano conservato e tramandato il sentimento.
San Francesco d’Assisi e poi Dante Alighieri, Francesco Petrarca, Giovanni Boccaccio e altri ereditarono il sentimento di appartenenza al lontano passato che era stato tramandato per diversi secoli. Parlarono e scrissero nella lingua del volgo, che nelle regioni del Centro Italia era la trasformazione della lingua latina. Per esprimere il loro estro poeti e scrittori non si servirono della lingua latina che era, e lo sarà a lungo, usata dai ceti alti della società e negli atti pubblici. Non dovettero costruire o adattare la lingua di cui si servirono. Ma la trovarono bella e pronta nel dialetto del luogo. Usarono la lingua parlata quasi da tutti fin dai primi anni della loro vita. Da volgare ne fecero una lingua aulica, alla quale si adeguarono quanti altri italiani scrissero dopo staccandosi faticosamente dai loro dialetti (anch’essi derivanti dal latino).
Dante e quegli altri grandi italiani diedero prestigio e resero ufficiale ma non crearono, non inventarono la lingua italiana. Come gli altri, Dante fu il faro di una luce che esisteva già: era la lingua parlata dal volgo in una vasta regione. Dante non ha creato l’idea dell’Italia e di noi italiani. Egli ebbe un estro poetico immenso e, con esso, trasmise agli altri Italiani il valore di un’idea dell’Italia che essi avevano già, avendola ricevuta in eredità dal passato. Si può dire che, con il suo apporto, la lingua volgare acquisiva dignità e diveniva italiana ma non nasceva, come non nasceva l’idea d’Italia e di noi Italiani, che era antica di secoli.